Esperienza in BURUNDI
In questo numero riportiamo l’esperienza di Daniele Moretti, fisioterapista laureato presso l’Università Statale di Milano nel 2009 Burundi, Ospedale di Mutoy, giugno 2011. Dopo aver effettuato i vari vaccini nei mesi precedenti alla partenza di fine giugno, mi preparavo con il pensiero a trascorrere un mese lontano da casa in un paese povero, completamente diverso dall’Italia, lontano da famiglia amici e comodità, ma ero pieno di energie per portare aiuto, conoscenze in ambito fisioterapico e voglia di scoprire un mondo diverso. Il Burundi è un paese ricco di contraddizioni: stupendo dal punto di vista naturale per panorami incontaminati, colori ricchi di vita e stellate fantastiche, ma scioccante per la povertà estrema, per la dilagante corruzione, per l’alto grado di analfabetismo e per le malattie che in Italia risultano ormai debellate da tanto tempo.
La mia esperienza nello specifico è stata quella di inserirmi con altri due medici italiani generici all’interno dello staff medico dell’ospedale Mutoy, gestito dall’Italia ma con medici locali. In particolare mi sono occupato − tra difficoltà di comunicazione, mischiando un po’ inglese un po’ italiano e poco francese, e mancanza di attrezzi e ausili medici riabilitativi − di svolgere il servizio di fisioterapia. Per coloro che si prestano a fare un’esperienza come la mia, in un paese molto povero ed arretrato, la fisioterapia risulta strettamente correlata a pazienti neurologici, allettati, traumatici e post-chirurgici. In Burundi non esistono le varie specializzazione mediche: per esempio non c’è il fisiatra e quindi non esiste un programma riabilitativo da seguire, oppure non è disponibile un referto di risonanza magnetica, le attrezzature fisioterapiche sono scarse o inesistenti e gli spazi non proprio ideali, ma sono proprio queste difficoltà che mi hanno spinto a lavorare con più passione e determinazione del solito. Di fronte agli ostacoli che in Italia avrei definito “insormontabili”, ho reagito con spirito di adattamento e con quelle capacità relazionali che avevo messo in pratica con altri tipi di pazienti, ma mai in condizioni “estreme”. Senza entrare nello specifico e dilungarmi troppo, riporto solo alcuni dei casi trattati che mi sono rimasti impressi nella memoria proprio perché con il mio intervento ho dato fiducia al paziente e ai suoi familiari (vedi box a lato). Oltre alla parte riabilitativa, il mio compito è stato quello di fornire almeno le nozioni di base a infermieri e assistenti locali, facendo capire loro l’importanza della mobilizzazione e degli spostamenti posturali per gli allettati. È stata quindi un’esperienza gratificante dal punto di vista professionale perché so che all’Ospedale di Mutoy il personale sanitario ha appreso e mette in pratica i miei insegnamenti; dal punto di vista umano, affrontare una realtà così arretrata rispetto alla situazione italiana è disarmante all’inizio, ma poi cerchi i mezzi che ti possano aiutare a superare le difficoltà. Torni in Italia sapendo di aver lasciato qualcosa di te in quel paese, ma portandoti via la gratitudine, l’affetto, la stima delle persone che si sono affidate a te. Ringrazio i medici locali, la dottoressa Paola e suo marito Daniele, che ormai da qualche anno vivono presso la comunità di Mutoy assistendo e aiutando i locali.
CASI TRATTATI:
FJ, 21 anni, ragazzo medulloleso, passava la giornata allettato favorendo così la formazione delle piaghe da decubito. Fin dall’inizio ho insistito a mobilizzarlo e poi, con l’aiuto degli infermieri locali, ho chiesto e ottenuto che FJ fosse inserito in una lista di pazienti che ogni 2-3 ore dovevano essere mobilizzati per evitare complicazioni. HC, 18 anni, ragazza post-frattura del gomito. L’ho seguita per recupero ROM e muscolare utilizzando elastici theraband portati dall’Italia. Si sono presentate due difficoltà: la prima è stata quella di superare il pregiudizio nel rapporto uomo-donna ancora così radicato in quel paese, la seconda quella di trattare il paziente con degli elastici colorati che i kirundi (abitanti locali) non avevano mai visto.
AS, 37 anni, lesione midollare incompleta. Ho seguito questo paziente con l’ausilio di un deambulatore per favorire il recupero neuromotorio. Abbiamo fatto chilometri insieme tra una corsia e l’altra dell’ospedale: io gli traducevo alcuni termini dall’inglese all’italiano e lui mi insegnava vocaboli kirundi. Forse lui ha dimenticato i vocaboli italiani e io non ricordo tutti quelli kirundi, ma la sua forza d’animo e il suo “affidarsi a me” sono ricordi ancora vivi in me. PH, 14 anni, in seguito a caduta aveva riportato frattura alle dita e al metacarpo. L’inizio è stato difficile: PH aveva poca voglia di ascoltare i miei suggerimenti per recuperare i movimenti fisiologici. Come fare? Abbiamo trovato un interesse comune: il gioco della dama. Costringendo dita e metacarpo a mobilizzarsi per spostare le pedine (costituite da tappi di bottiglia) sono riuscito a finalizzare un trattamento utile sia dal punto di vista funzionale sia dal punto di vista interrelazionale.
PH, 5 anni, disturbi cognitivi e difficoltà deambulatorie. Ho conosciuto subito mamma e papà di PH, che ho trovato ovviamente molto preoccupati per la mancanza di risorse e convinti della loro incapacità di gestire un bambino con tali difficoltà. Ho quindi intuito che dovevo aiutare i genitori con alcuni piccoli ma essenziali accorgimenti in modo che potessero constatare di essere in grado di aiutare PH anche senza soldi, anche senza ausili, anche senza altro personale, anche senza di me. Ho quindi insistito perché PH mantenesse il più possibile la stazione eretta, poi ho iniziato un periodo di deambulazione facendo in modo che la mamma di PH seguisse le varie fasi e lasciando a poco a poco che lei prendesse il mio posto nel correggere la postura, nel sostenere il tronco, ecc. Quando sono ripartito per l’Italia, la mamma di PH era la sua migliore assistente.